b@by79
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 11, 2010, 19:52:57 » |
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LE RAGIONI DELL'ASSUNZIONE A TERMINE DEVONO ESSERE SPECIFICATE - Ciò può avvenire anche con il rinvio ad accordi sindacali (Cassazione Sezione Lavoro n. 2279 del 1 febbraio 2010, Pres. De Luca, Rel. Ianniello).
Giancarlo L. è stato assunto alle dipendenze della S.p.A. Poste Italiane con contratto a tempo determinato dal 4 maggio al 30 giugno 2002 per "esigenze tecniche, organizzative e produttive anche di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche ovvero conseguenti all'introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi nonché all'attuazione delle previsioni di cui agli accordi del 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001 e 11 gennaio 2002, anche ai sensi dell'accordo 13 febbraio e 17 aprile 2002". Egli ha chiesto al Tribunale di Siracusa di accertare la nullità del termine apposto al contratto, di dichiarare l'esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e di condannare l'azienda a riammetterlo in servizio e a risarcirgli il danno per perdita delle retribuzioni successive alla scadenza del termine. Il Tribunale ha dichiarato il termine nullo, ma ha respinto le altre domande, in quanto non ha ritenuto che la nullità del termine comportasse la conversione in rapporto a tempo indeterminato. Questa decisione è stata parzialmente riformata, in grado di appello, dalla Corte di Catania, che ha confermato la nullità del termine, per genericità della causale indicata e ha accolto anche le domande di riammissione in servizio e al risarcimento del danno. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Catania, tra l'altro, per avere ritenuto che l'art. 1 del decreto legislativo n. 368/2001 imponga la specificazione e non la sola indicazione delle ragioni dell'apposizione del termine e comunque per non avere considerato che la causale dell'assunzione doveva ritenersi sufficientemente specificata con il richiamo agli accordi sindacali e per avere posto a carico dell'azienda la prova dell'effettiva esistenza delle ragioni per l'assunzione.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 2279 del 1 febbraio 2010, Pres. De Luca, Rel. Ianniello) ha rigettato il ricorso dell'azienda nella parte concernente l'interpretazione dell'art. 1 d.lgs. n. 368/2001 e l'attribuzione dell'onere probatorio mentre lo ha accolto nella parte relativa all'omessa considerazione degli accordi sindacali.
L'art. 1 del D.Lgs. 6 settembre 2001 n. 368, relativo alla "attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES" - ha osservato la Corte - stabilisce ai primi due commi: 1 - E' consentita l'apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostituito; 2 - L'apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1".
Le considerazioni della ricorrente sul significato da attribuire al termine "specificate" usato dall'art. 1 del decreto legislativo n. 368/01, nel senso di mera indicazione - ha affermato la Corte - non appaiono condivisibili; con l'espressione sopra riprodotta, di chiaro significato già alla stregua delle parole usate, il legislatore ha infatti inteso stabilire un vero e proprio onere di specificazione delle ragioni oggettive del termine finale, perseguendo la finalità di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni nonché l'immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto (così Corte Costituzionale sent. 14 luglio 2009 n. 214). Il decreto legislativo n. 368 del 2001, abbandonando il precedente sistema di rigida tipicizzazione delle causali che consentono l'apposizione di un termine finale al rapporto di lavoro (in parte già oggetto di ripensamento da parte del legislatore precedente), in favore di un sistema ancorato alla indicazione di clausole generali (ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo), cui ricondurre le singole situazioni legittimanti come individuate nel contratto - ha rilevato la Corte - si è infatti posto il problema, nel quadro disciplinare tuttora caratterizzato dal principio di origine comunitaria del contratto di lavoro a tempo determinato, del possibile abuso insito nell'adozione di una tale tecnica. Per evitare siffatto rischio di un uso indiscriminato dell'istituto, il legislatore ha imposto la trasparenza, la riconoscibilità e la verificabilità della causale assunta a giustificazione del termine, già a partire dal momento della stipulazione del contratto di lavoro, attraverso la previsione dell'onere di specificazione, vale a dire di una indicazione sufficientemente dettagliata della causale nelle sue componenti identificative essenziali, sia quanto al contenuto che con riguardo alla sua portata spazio-temporale e più in generale circostanziale. In altri termini, per le finalità indicate, - ha osservato la Corte - tali ragioni giustificatrici, contrariamente a quanto sostenuto in prima battuta dalla ricorrente, devono essere sufficientemente particolareggiate, in maniera da rendere possibile la conoscenza dell'effettiva portata delle stesse e quindi il controllo di effettività delle stesse. Che questo debba ritenersi il significato del termine "specificate" usato dall'art. 1, 2° comma del decreto legislativo, risulta del resto confermato dalla interpretazione della relativa disciplina anche alla luce della direttiva comunitaria a cui il decreto medesimo dà attuazione.
In proposito, è stato di recente chiarito dalla Corte di giustizia CE (cfr., in particolare sent. 23 aprile 2009 nei procc. riuniti da C - 378/07, Kiziaki e altri nonché sent. 22 novembre 2005, C - 144/04, Mondold) che l'accordo quadro trasfuso nella direttiva 1999/70/CE contiene nel preambolo e del testo sia norme riguardanti ogni tipo di contratto a termine sia norme riferibili esclusivamente al fenomeno della reiterazione di tale tipo di contratto e quindi ai lavoratori dei contratti a termine c.d. successivi. "Risulta infatti chiaramente sia dall'obiettivo perseguito dalla direttiva 1999/70,sia dall'accordo quadro della formulazione delle pertinenti disposizioni di esso, che ... l'ambito disciplinato da tale accordo non è limitato ai soli lavoratori con contratti di lavoro a tempo determinato successivi, ma che, al contrario, si estende a tutti i lavoratori che forniscono prestazioni retribuite nell'ambito di un determinato rapporto di lavoro che li vincola ai rispettivi datori di lavoro, indipendentemente dal numero di contratti a tempo determinato stipulati da tali lavoratori" (punto 120 alla medesima sentenza). Come è stato recentemente rilevato in dottrina - ha osservato la Corte - in tal modo la clausola di non regresso persegue lo scopo, in generale, di impedire arretramenti ingiustificati della tutela nella materia considerata, nella ricerca di un difficile equilibrio tra esigenze di modernizzazione dei sistemi sociali nazionali, flessibilità del rapporto per i datori e sicurezza per i lavoratori. A ciò consegue che una interpretazione del termine "specificate" che non consentisse, nella piena trasparenza, quel controllo di effettività, assicurato, seppur in maniera diversa, dalla disciplina previgente, risulterebbe in contrasto con la clausola di non regresso di cui alla clausola 8 n. 3 dell'accordo quadro recepito dalla direttiva, in quanto rappresenterebbe un ingiustificato arretramento in rapporto al precedente livello generale di tutela applicabile nello Stato italiano e finirebbe altresì per configurare un eccesso di delega da parte del governo rispetto a quanto stabilito dalla legge 29 dicembre 2000 n. 422, che a questo attribuisce unicamente il potere di attuare la direttiva 1999/70/CE, con la possibilità di apportare nei settori interessati dalla normativa da attuare unicamente modifiche o integrazioni necessarie ad evitare disarmonie tra le norme introdotte e quelle già vigenti.
Siffatta specificazione delle ragioni giustificatrici del termine - ha precisato la Corte - può risultare anche indirettamente nel contratto di lavoro e da esso per relationem in altri testi scritti accessibili alle parti, in particolare nel caso in cui, data la complessità e la articolazione del fatto organizzativo, tecnico o produttivo che è alla base della esigenza di assunzioni a termine, questo risulti analizzato in documenti specificatamente ad esso dedicati per ragioni di gestione consapevole e/o concordata con i rappresentanti del personale; ciò che la ricorrente deduce essere avvenuto nel caso in esame, in cui il contratto di lavoro di Gianfranco L. (che pur enuncia, nella prima parte, solo genericamente motivi attinenti ad esigenze aziendali) fa riferimento, per precisarne in concreto la portata, "all'attuazione delle previsioni di cui agli accordi 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001 e 11 gennaio 2002 anche ai sensi dell'accordo 13 febbraio e 17 aprile 2002". Da tali accordi, come riprodotti dalla difesa della società nelle parti di interesse (nel rispetto del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione) - ha osservato la Corte - si desumerebbe infatti l'attivazione, nel periodo dagli stessi considerato e nell'ambito del processo di ristrutturazione in atto, di processi di mobilità del personale all'interno dell'azienda al fine di riequilibrarne la distribuzione su tutto il territorio nazionale nonché quanto alle mansioni, da posizioni sovradimensionate, in genere di staff, verso il servizio di recapito, carente di personale. In tale contesto, secondo la ricorrente, l'accordo 17 ottobre 2001, sul punto implicitamente richiamato anche nelle sedi contrattuali successive, prevederebbe che "La società potrà continuare a ricorrere all'attivazione di contratti a tempo determinato per sostenere il livello di servizio recapito durante la fase di realizzazione dei processi di mobilità di cui al presente accordo, ancorché nella prospettiva di ridurne gradualmente l'utilizzo". Infine, con l'ulteriore indicazione nel contratto di Gianfranco L. della sede lavorativa e delle mansioni cui era assegnato, risulterebbero, secondo la ricorrente, sufficientemente specificate le ragioni giustificative della clausola oppositiva del termine della sua assunzione. Attraverso il richiamo agli accordi collettivi citati, il contratto di lavoro di Gianfranco L., specificherebbe infatti, con riferimento alla sede di lavoro e alla posizione lavorativa di questi, che la causale del termine consiste nella necessità di coprire, temporaneamente e fino al progressivo esaurimento del processo di mobilità interaziendale di cui agli accordi medesimi, posizioni di lavoro scoperte, su tutto il territorio nazionale, presso il servizio recapito della società e quindi per ciò che riguarda mansioni e qualifiche ben individuate.
Ciò posto - ha affermato la Corte - il collegio rileva che i giudici di merito hanno omesso di esaminare gli elementi di specificazione emergenti dal contratto alla luce delle deduzioni della società, al fine di valutarne l'effettiva sussistenza nonché la sufficienza sul piano della ricorrenza o meno del requisito di cui al secondo comma dell'art. 1 del decreto legislativo, contenente sostanzialmente il loro giudizio di genericità all'interno della sola prima parte della causale enunciata nel contratto di lavoro determinato di Gianfranco L. Per tali motivi e nei limiti di essi - ha concluso la Corte - il ricorso va accolto, con la precisazione che, ove i giudici di merito, cui la causa va rinviata, valutino come sufficientemente specificata la causale, l'onere probatorio relativo alla effettiva ricorrenza nel concreto degli elementi così individuati, ivi compresa l'effettiva destinazione di Gianfranco L. nel corso del rapporto presso la sede di lavoro indicata, con la qualifica e le mansioni conseguenti, graverà sulla società datrice di lavoro e dovrà essere assolto sulla base della documentazione ritualmente acquisita al processo e della prova testimoniale dedotta, che la Corte territoriale ha erroneamente non ammesso, in quanto non ne ha esaminato la specificità e rilevanza alla luce dei principi qui indicati. Va infatti disattesa - ha affermato la Corte - la pretesa oggetto della prima parte del terzo motivo di ricorso, alla stregua della quale, nel nuovo sistema introdotto dal D.Lgs. n. 368/01 non graverebbe più sul datore di lavoro l'onere di provare le ragioni obiettive che giustificano la clausola oppositiva del termine, ma dovrebbe essere il lavoratore a dedurre e provare la non ricorrenza nel caso concreto della situazione enunciata per legittimare il termine; la Suprema Corte ha infatti avuto già modo di osservare che, anche anteriormente alla esplicita introduzione del comma "premesso" dall'art. 39 della legge 24 dicembre 2007 n. 247 (secondo cui "Il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato"), l'art. 1 del D.Lgs. n. 368/01 ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo pur sempre l'apposizione del termine una ipotesi derogatoria. Lo testimonia la stessa tecnica legislativa adottata dal decreto legislativo, secondo la quale l'apposizione del termine "è consentita" solo "a fronte" di determinate specifiche ragioni derogatorie, come tali normalmente da provare in giudizio da chi le deduce a sostegno delle proprie difese. Lo conferma poi il dato relativo alla "vicinanza" al datore di lavoro delle situazioni che consentono la deroga, anch'essa elemento normalmente significativo del conseguente carico probatorio in giudizio. Infine e soprattutto - ha concluso la Corte - un tale risultato ermeneutico è sostenuto dal richiamo alla c.d. clausola di non regresso contenuta nella direttiva a cui il decreto dà attuazione, alla luce delle argomentazioni in precedenza svolte nonché il riferimento al contenuto della delega alla base del decreto legislativo, limitato appunto sostanzialmente all'attuazione della direttiva, che non contiene disposizioni che si attaglino ad una diversa distribuzione dell'onere della prova con riguardo al primo o unico contratto di lavoro a tempo determinato.
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